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Posts Tagged ‘alimentazione’

A volte capita che di colpo si grida:

Cacchio è vero, che scemo! Perché non ci ho pensato prima! Chiuse virgolette.

Vi è capitato anche a voi? No, intendo, non di essere scemi ma di “non averci pensato prima.”

È andata così: io ho molte competenze di fermentazioni, conosco i benefici delle foglie d’ulivo, eppure non ho unito i due puntini! … Bene, lo faccio ora.

Sembra infatti che si stia diffondendo la pratica di fermentare le foglie di ulivo. Potete trovare svariati video di studenti e tutor autoreferenziali sull’argomento, in rete. Il nome più usato è fervida, ma non chiedetemi se è diventato soggetto di copyright, non ho abbastanza info in merito. Di sicuro l’estratto di foglie industriale, quello commerciale che ho comprato per anni, Olife, è con copyright.

Si tratta di due modi completamente diversi di estrarre le stesse proprietà, da quello che posso immaginare (ora vado un po’ alla cieca). I fervida sono foglie fermentate, quindi a freddo. Invece da un processo di -credo!- bollitura, (ma il procedimento esatto resta segreto) proviene la bevanda iper-concentrata Olife.

Così ho messo su un primo tentativo di estrarre una sorta di Olife con le fermentazioni. Ecco i miei passi.

Ho raccolto qualche chilo di foglie di olivo mediterraneo. Le ho pulite foglia per foglia dagli insetti, lavate per benino tenendole una notte in immersione.

Ho preparato a freddo uno sciroppo di acqua e zucchero, immergendovi poi le foglie.

La ricetta è incollata sul Boccaccio, così non avrò problemi a cercarla tra un anno.

Ehssi, perché il tutto va tenuto UN ANNO a fermentare, rimescolando di tanto in tanto.

Ci rivediamo tra 12 mesi con il video/post del risultato!

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Quelli che operano egoisticamente per dei risultati sono dei miserabili. – Sri Krishna

 

Credo che la giustizia produca giustizia e l’ingiustizia, ingiustizia. – R. W. Emerson

 

Le persone costruiscono la strada camminando. – Antonio Machado

 

Ben tre citazioni mi ci vogliono, stavolta, di autori che parlano molto meglio di me, per introdurre quanto segue.

“Erase una vez” il Biologico

La storia della nascita del “Biologico” moderno è raccontata in diversi libri guida come Il dilemma dell’onnivoro, ecc. (assemblatevi anche voi la vostra biblioteca domestica).

Partendo dalle fonti è bene sapere che il Bio di oggi è figlio di una ribellione culturale che si oppose al riduzionismo di J. von Liebig, autore di libri che gettarono le basi dell’agricoltura industriale moderna intorno al 1840-50. Nel secolo successivo la Rivoluzione Verde (pseudonimo per indicare il sistema monocoltura-fertilizzanti-pesticidi inaugurato negli USA a partire dagli anni ’40) sposò del tutto il riduzionismo di Liebig come una naturale prosecuzione della logica dualistica Uomo-natura, Bene-male, Giusto-sbagliato dell’uomo occidentale moderno, e che aveva appena dato il meglio di se nella Seconda Guerra Mondiale. Insomma a farla breve si produsse all’epoca una grande frittata di cervelli dei maschi dominanti d’Occidente.

Al riduzionismo e alla sconnessione, proposta da Liebig, come chiavi per comprendere e dominare i processi biochimici (compresa la separazione dei nutrienti per le piante) più di ogni altro autore contemporaneo Albert Howard oppose l’idea di interconnessione.

Esempio – Noi in questo momento siamo in internet (interconnessi) e funzioniamo molto meglio così, come civiltà, usando l’interconnessione: ci informiamo di più e meglio, agiamo in peer-to-peer. Democrazia diretta. Intelligenza collettiva, ecc. ecc. Ciò è un esempio di come l’interconnessione è per noi una cosa seria: la chiave della vita, per tutti i viventi, come aveva intuito Howard.

Un’altra cosa evidente è che funzionando interconnessi, creiamo realtà molto più complesse di quelle che vengono create da persone disconnesse (si pensi ad esempio alle gerarchie militari o clericali o aziendali, prototipi di società nella società, e alla loro ridicola semplificazione organizzativa: idea (di uno solo)-comando-esecuzione del comando). Le società complesse invece si auto-organizzano continuamente con il feedback (ecco come diventano così complesse e resilienti); Le società gerarchiche non possono farlo: ai livelli inferiori non è dato dire la propria.

Ebbene, Liebig, proponendo il metodo riduzionista (mannaggia a Cartesio!) come approccio per lo studio dei processi biologici,  cioè separando gli elementi e i processi, e studiando tali processi nel mondo vegetale, giunse ad un semplificativo schema di funzionamento della pianta: ha bisogno, diceva, per crescere, di acqua, luce e tre elementi, azoto, fosforo e potassio.

E’ un’infelice conseguenza degli approcci semplicistici quella di arrivare a conclusioni semplicistiche.

Detto questo, Howard è ben considerato il primo che in Occidente, in epoca moderna e in quel contesto (al momento propizio, direi) gettò le basi di quello che poi si strutturò come metodo agricolo Biologico. E’ facile accorgersi che non è un metodo (come l’ottusità della legislazione ci porterebbe semplicisticamente condurre a pensare) ma un approcio alla vita, al rapporto con tutti gli altri viventi e, in ultima analisi, alle piante ed animali della nostra fattoria, che poi si regolamenta, purtroppo, con una mera serie di leggi e contratti.

La storia continua. Si dovrebbe raccontare che, entrati nel secolo 1900, ci furono poi altre figure importanti che proseguirono l’eredità culturale di Howard e andarono avanti nello studio della natura vista come un tutt’uno con l’uomo, nonché della fattoria vista come organismo vivente, ma io qui volevo focalizzarmi sugli aspetti sociali del biologico.

Il movimento biologico annoverò fin da subito una schiera di agricoltori che intendevano non piegarsi al modello economico dominante, che volevano condurre la fattoria nel rispetto della natura, cercando di preservare intatti i cicli biochimici e le interconnessioni tra terreno, vegetali e animali. Nel frattempo, dal lato clienti, la consapevolezza portò in USA alla nascita di progetti popolari in cui le persone partecipavano direttamente al finanziamento di tali realtà agricole di controtendenza (andare contro l’agroindustria e il Governo significava avere vita non facile, economicamente). Nacquero così le CSA (Community Supported Agricolture), che erano in pratica filiere di mercato chiuse su se stesse: i cittadini finanziavano le fattorie presso cui veniva coltivato il cibo che poi essi stessi mangiavano. Questo per poter avere nel piatto, ovviamente, cibo bio. Il tutto poteva prevedere in genere anche una sorta di condizione promiscua in cui si poteva pagare in natura, cioè supportando lavorativamente i produttori.

Mercato vs Comunità

La CSA è molto più lungimirante dei GAS (Gruppi di Acquisto Solidali) italiani o delle cooperative di soli acquirenti come ConProBio (Svizzera) o CortoCircuito (Italia): nel restare produttori indipendenti infatti si ha l’indubbio vantaggio di poter produrre come si vuole cosa si vuole (basta farlo di nascosto). Per contro non si ha vita facile, nel Mercato, stretti tra GDO (Grande Distribuzione) e fornitori, che insieme agiscono simultaneamente con effetto incudine-martello riducendo gli utili al minimo per l’agricoltore. Inoltre nel GAS non si supera l’eterna dualità, l’eterna contraddizione concorrenziale tra compratore e venditore: il primo vuole comprare sempre la merce al prezzo più basso possibile, il secondo venderla al prezzo più alto. Si rimane, quindi, nemici sotto lo stesso tetto, in un rapporto di dipendenza-conflitto mai risolto, che è l‘essenza del Mercato [2]. Nella CSA invece si supera questa dicotomia e si pratica la Common (la Comunità)[1]. Gli agricoltori faranno in tal caso davvero parte della famiglia, condivideranno le scelte produttive e i metodi agricoli con i futuri loro acquirenti. Ci sarà insomma più trasparenza.

zap

E veniamo finalmente al motivo del post.

L’unico esempio che conosco in Italia di CSA “all’americana” è Arvaia, il cui blog seguo da tempo. E’ una CSA di Bologna, che in questi giorni ha traguardato un obiettivo organizzativo non da poco, che è appunto quello del finanziamento integrale da parte dei soci-consumatori.

E’ possibile cercare di farsi un’idea del progetto sul loro sito e, se state in zona, partecipare.

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In bocca al lupo ragazzi!

 

 Riferimenti

[1] Per saperne di più sulle Commons e altre forme non competitive:

Il valore delle cose, Raj Patel

[2] Sul tema GDO, fornitori e prezzi di mercato:

La fine del cibo, Roberts

 

 

 

 

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Intorno a casa mia in queste settimane è tutto un maturare e marcire di cachi sugli alberi, nei giardini, nei parchi. Li vedo dalla finestra. Poi, dopo la visione di uno spettacolo del genere, mi dirigo al supermercato di quartiere dove non c’è neanche un cachi proveniente dalla filiera locale o dalla regione: provengono da Marocco, Spagna, Grecia. Con essi si trovano anche kiwi dalla Nuova Zelanda, noci e funghi dalla Cina. E frutti tropicali di tutti i tipi (a dicembre) come le mini banane, frutti dell’amore, chirimoya, aguacate, le mini ananas, e così via.

Non è una novità, è il Mercato Globalizzato, di cui ben svela trucchi e finezze Paul Roberts nel libro La fine del cibo. E non sono queste chiacchiere oziose del sabato: noi mangiamo questo cibo. Che cibo non può chiamarsi ma piuttosto prodotto industriale (anche quando è etichettato Bio, è sempre industriale e quindi non sostenibile, come riflette Michael Pollan ne Il dilemma dell’onnivoro). Dovremmo chiamarlo Anello della catena di mercato, o Investimento, ma non certo cibo. Cibo è solo un eufemismo. La coca cola non è cibo. Il sofficino, i prodotti trasformati, la rucola coltivata in idroponica sotto serra, irrorata, tagliata col laser, lavata e confezionata sotto celofan, non è cibo. E’ solo un anello della catena investitore-produttore-consumatore-inceneritore. Serve a produrre profitto, non è un alimento. La stessa parola, alimento, dovrebbe indicare qualcosa che nutre, invece la maggior parte della frutta viene raccolta acerba, quando cioè ha meno del 10% delle sostanze nutritive e protettive della frutta a piena maturazione. E’ quindi un soprammobile, più che cibo.

Qualcuno una volta, mentre facevo un intervento ad un transition talk, ha ribattuto che il problema vero era la mia mancanza di fede: “E’ con la preghiera, la preghiera vera, che possiamo cambiare le cose tutti insieme”.

 

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