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Archive for the ‘TRANSITION TOWNS’ Category

Il Transition Training (TT) è un corso intensivo di due giorni in cui sotto la guida di uno o più facilitatori si imparano, in modo esperienziale, molti modi di:

1 Progettare il cambiamento nella comunità partendo dal basso, subito, con le persone che ci sono e senza aspettare i politici (in una parola, Transizione);

2 Immaginare il futuro post-carbon e cominciare a lavorare insieme per arrivarci consapevolmente;

3 Gestire un gruppo e la leadership in maniera partecipata;

4 Comunicare;

5 Lavorare giocando;

E molto altro ancora.

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Tutto quello che riguarda il TT è ben spiegato nei blog e nelle community varie del Movimento di Transizione (vedi i link in basso).

Il meglio del Transition Training è, tuttavia, ben altro. E’ quello che non sta scritto in rete, nei manuali, nei video sulla transizione. Il succo non è certo concentrato negli spezzoni di presentazioni di slide reperibili online.

Il succo è la non misurabile esperienza di scambio, sensazioni, commozioni, relazioni, umanità e vita che un gruppo di venti persone può innescare.

Un gruppo di venti persone in due giorni può gettare le fondamenta di amicizie durature, può sviscerare i più profondi problemi sedimentati, può mettersi in gioco e mettere in discussione tutto quanto fatto fino a quel momento nella vita. Ma questa serie a dir poco incredibile di eventi straordinari possono aver luogo solo se i partecipanti si convincono di trovarsi in una stanza magica, una stanza dove non contano i titoli onorifici, ma come ci si sente, non contano le aggressioni verbali ma conta dire al compagno che siede a fianco cosa si spera per il futuro e si provi, per gioco e con strumenti nuovi e che ci riconnettono, a progettarne uno desiderabile. Due giorni bastano a convincerci che quel gioco è proprio ciò che vogliamo fare da grandi.

Per me è stato così, due giorni fa, a Mestre.

 

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La frase del giorno: non gruppi ma flussi ;)

Risorse

– Articolo sul sito ufficiale.

– Per fare un Transition Training il calendario è a questo link (in aggiornamento).

– Il sito di alcuni dei Facilitatori.

– FILM del 2013 sulla Transizione nel mondo | Transizione 2.0 (attivare i sottotitoli in Italiano)

 

 

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Quelli che operano egoisticamente per dei risultati sono dei miserabili. – Sri Krishna

 

Credo che la giustizia produca giustizia e l’ingiustizia, ingiustizia. – R. W. Emerson

 

Le persone costruiscono la strada camminando. – Antonio Machado

 

Ben tre citazioni mi ci vogliono, stavolta, di autori che parlano molto meglio di me, per introdurre quanto segue.

“Erase una vez” il Biologico

La storia della nascita del “Biologico” moderno è raccontata in diversi libri guida come Il dilemma dell’onnivoro, ecc. (assemblatevi anche voi la vostra biblioteca domestica).

Partendo dalle fonti è bene sapere che il Bio di oggi è figlio di una ribellione culturale che si oppose al riduzionismo di J. von Liebig, autore di libri che gettarono le basi dell’agricoltura industriale moderna intorno al 1840-50. Nel secolo successivo la Rivoluzione Verde (pseudonimo per indicare il sistema monocoltura-fertilizzanti-pesticidi inaugurato negli USA a partire dagli anni ’40) sposò del tutto il riduzionismo di Liebig come una naturale prosecuzione della logica dualistica Uomo-natura, Bene-male, Giusto-sbagliato dell’uomo occidentale moderno, e che aveva appena dato il meglio di se nella Seconda Guerra Mondiale. Insomma a farla breve si produsse all’epoca una grande frittata di cervelli dei maschi dominanti d’Occidente.

Al riduzionismo e alla sconnessione, proposta da Liebig, come chiavi per comprendere e dominare i processi biochimici (compresa la separazione dei nutrienti per le piante) più di ogni altro autore contemporaneo Albert Howard oppose l’idea di interconnessione.

Esempio – Noi in questo momento siamo in internet (interconnessi) e funzioniamo molto meglio così, come civiltà, usando l’interconnessione: ci informiamo di più e meglio, agiamo in peer-to-peer. Democrazia diretta. Intelligenza collettiva, ecc. ecc. Ciò è un esempio di come l’interconnessione è per noi una cosa seria: la chiave della vita, per tutti i viventi, come aveva intuito Howard.

Un’altra cosa evidente è che funzionando interconnessi, creiamo realtà molto più complesse di quelle che vengono create da persone disconnesse (si pensi ad esempio alle gerarchie militari o clericali o aziendali, prototipi di società nella società, e alla loro ridicola semplificazione organizzativa: idea (di uno solo)-comando-esecuzione del comando). Le società complesse invece si auto-organizzano continuamente con il feedback (ecco come diventano così complesse e resilienti); Le società gerarchiche non possono farlo: ai livelli inferiori non è dato dire la propria.

Ebbene, Liebig, proponendo il metodo riduzionista (mannaggia a Cartesio!) come approccio per lo studio dei processi biologici,  cioè separando gli elementi e i processi, e studiando tali processi nel mondo vegetale, giunse ad un semplificativo schema di funzionamento della pianta: ha bisogno, diceva, per crescere, di acqua, luce e tre elementi, azoto, fosforo e potassio.

E’ un’infelice conseguenza degli approcci semplicistici quella di arrivare a conclusioni semplicistiche.

Detto questo, Howard è ben considerato il primo che in Occidente, in epoca moderna e in quel contesto (al momento propizio, direi) gettò le basi di quello che poi si strutturò come metodo agricolo Biologico. E’ facile accorgersi che non è un metodo (come l’ottusità della legislazione ci porterebbe semplicisticamente condurre a pensare) ma un approcio alla vita, al rapporto con tutti gli altri viventi e, in ultima analisi, alle piante ed animali della nostra fattoria, che poi si regolamenta, purtroppo, con una mera serie di leggi e contratti.

La storia continua. Si dovrebbe raccontare che, entrati nel secolo 1900, ci furono poi altre figure importanti che proseguirono l’eredità culturale di Howard e andarono avanti nello studio della natura vista come un tutt’uno con l’uomo, nonché della fattoria vista come organismo vivente, ma io qui volevo focalizzarmi sugli aspetti sociali del biologico.

Il movimento biologico annoverò fin da subito una schiera di agricoltori che intendevano non piegarsi al modello economico dominante, che volevano condurre la fattoria nel rispetto della natura, cercando di preservare intatti i cicli biochimici e le interconnessioni tra terreno, vegetali e animali. Nel frattempo, dal lato clienti, la consapevolezza portò in USA alla nascita di progetti popolari in cui le persone partecipavano direttamente al finanziamento di tali realtà agricole di controtendenza (andare contro l’agroindustria e il Governo significava avere vita non facile, economicamente). Nacquero così le CSA (Community Supported Agricolture), che erano in pratica filiere di mercato chiuse su se stesse: i cittadini finanziavano le fattorie presso cui veniva coltivato il cibo che poi essi stessi mangiavano. Questo per poter avere nel piatto, ovviamente, cibo bio. Il tutto poteva prevedere in genere anche una sorta di condizione promiscua in cui si poteva pagare in natura, cioè supportando lavorativamente i produttori.

Mercato vs Comunità

La CSA è molto più lungimirante dei GAS (Gruppi di Acquisto Solidali) italiani o delle cooperative di soli acquirenti come ConProBio (Svizzera) o CortoCircuito (Italia): nel restare produttori indipendenti infatti si ha l’indubbio vantaggio di poter produrre come si vuole cosa si vuole (basta farlo di nascosto). Per contro non si ha vita facile, nel Mercato, stretti tra GDO (Grande Distribuzione) e fornitori, che insieme agiscono simultaneamente con effetto incudine-martello riducendo gli utili al minimo per l’agricoltore. Inoltre nel GAS non si supera l’eterna dualità, l’eterna contraddizione concorrenziale tra compratore e venditore: il primo vuole comprare sempre la merce al prezzo più basso possibile, il secondo venderla al prezzo più alto. Si rimane, quindi, nemici sotto lo stesso tetto, in un rapporto di dipendenza-conflitto mai risolto, che è l‘essenza del Mercato [2]. Nella CSA invece si supera questa dicotomia e si pratica la Common (la Comunità)[1]. Gli agricoltori faranno in tal caso davvero parte della famiglia, condivideranno le scelte produttive e i metodi agricoli con i futuri loro acquirenti. Ci sarà insomma più trasparenza.

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E veniamo finalmente al motivo del post.

L’unico esempio che conosco in Italia di CSA “all’americana” è Arvaia, il cui blog seguo da tempo. E’ una CSA di Bologna, che in questi giorni ha traguardato un obiettivo organizzativo non da poco, che è appunto quello del finanziamento integrale da parte dei soci-consumatori.

E’ possibile cercare di farsi un’idea del progetto sul loro sito e, se state in zona, partecipare.

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In bocca al lupo ragazzi!

 

 Riferimenti

[1] Per saperne di più sulle Commons e altre forme non competitive:

Il valore delle cose, Raj Patel

[2] Sul tema GDO, fornitori e prezzi di mercato:

La fine del cibo, Roberts

 

 

 

 

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Anche se una fetta della gente continua a vivere nel secolo scorso, esiste una frazione sempre più ampia di persone che, venute a conoscenza dello stato dell’economia, dell’ambiente e della società, smette di cercare lavoro nel business as usual e cerca di crearsi un lavoro che assecondi il cambiamento globale. E’ naturale, è un modo di adattarsi per non crepare, una evoluzione.

Gli adattamenti ci hanno sempre contraddistinto come esseri viventi e sono una botta di vita nella piattezza della epoca precedente, in cui l’esigenza di trovare il proprio posto nel sogno americano globale ci ha spento il cervello della ceatività.

Ora sappiamo che piccoli gruppi di persone possono sedersi ad un tavolo e cominciare a progettare una nuova economia per la loro cittadina e portare avanti il loro embrione in collaborazione con il sindaco e le imprese, condividendo il processo in tempo reale su twitter o wordpress ma, ancora meglio, vedendosi e conoscendosi di persona.

Alcuni segnali dello scenario futuro sono che le specie vegetali tradizionali possono smettere di produrre entro pochi anni perché aggredite dall’alterazione climatica (castagni, olivi, albicocche), che l’economia dei servizi del secolo scorso non elargisce più posti di lavoro ma li veicola in luoghi (Cina e India) dove la manodopera è a basso costo. Che al grande movimento delle masse umane dei pendolari dovrà sostituirsi il telelavoro attraverso internet, visto l’enorme disagio dei trasporti che 3 miliardi di esseri umani creano vivendo nelle metropoli. Questi e altri item di una lunga lista di indici di trasformazione economica possono far capire che il mondo non è più come 20 anni fa e che solo chi capisce e asseconda il nuovo scenario potrà avere futuro.

La nuova economia per ora è piuttosto anonima, non ha un nome (è una moltitudine inarrestabile), viaggia sotto i radar, si sta strutturando a macchia di leopardo, striscia talvolta nei consigli di amministrazione delle multinazionali o nei parlamenti (sotto forma di Dario Tamburrano ad esempio), attraverso bizzarri e multicolori gruppi di minoranza etichettati come ecologisti, pacifisti, verdi. Ma si tratta di tutt’altro: di persone come il gruppo di transizione Monteveglio, dalla coscinenza allargata, che stanno cambiando l’idea di come deve funzionare la nostra società. E che stanno facendo opera di persuasione aprendo varchi ideologici e spesso riuscendo a farsi strada negli altri e ottenere maggiore collaborazione.

I capisaldi della nuova forma mentis sono un mix di metodologie create dal basso: collaboratività, sondivisione, distribuzione della responsabilità, senso di comunità globale, ecologia umana applicata all’economia. Da qui scaturirà la nuova economia.

 

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Foto sopra: Transition Town Totnes e il progetto Atmos. Principi chiave molto motivanti.

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